La rivelazione 2022? Si chiama Hamilton

La rivelazione 2022? Si chiama Hamilton

A 37 anni, Hammer non molla e dimostra di essere un campione senza limiti nonostate le difficoltà

26.09.2022 09:16

Se a inizio stagione avevo scritto - e non mi pento - che la vera sorpresa all’alba della nuova F.1 turboibrida di seconda generazione era il rientrante Kevin Magnussen, adesso è tempo di guardare alle cose in modo più globale e strutturato. E allora dico che, alla luce degli sviluppi e del contesto narrativo del campionato, a oggi il pilota più sorprendente si chiama Lewis Hamilton. E questo, al di là dei risultati in classifica e degli score globali, in base a un ragionamento articolato e stringente.

Carta d'identità e illustri esempi

Tanto per cominciare Lewis Hamilton quest’anno ha compiuto trentasette anni. Età un po’ particolare per un top driver di Formula Uno e mediamente quasi sempre caratterizzante una decisa svolta verso il declino. A trentasette anni, cioè nel 1992, in pieno anno sabbatico prima dell’ultimo hurrà, Alain Prost, che pure era uno integro e longevo, aveva del tutto perso il tocco magico sul giro secco, sull’acqua aveva rinunciato a spingere e s’apprestava a vincere il quarto e ultimo titolo mondiale soprattutto grazie alla netta superiorità dell’Astrowilliams a motore Renault, praticamente priva di rivali in ottica iridata. A trentasette anni, cioè nel 1986, Niki Lauda aveva già smesso da pochi mesi e per sempre con la carriera di pilota di F.1, al termine di una stagione di decompressione sfortunata, un tantino anonima e baciata solo da un successo in Olanda, peraltro strabattuto altrove dall’ormai lanciatissimo Prost.

A trentasette anni Michael Schumacher disputava un’annatona in F.1 con la Ferrari, con un titolo perso di poco, salvo annunciare il ritiro in quel di Monza. Vincendo la gara, certo, ma apprestandosi anche a chiudere per sempre, dopo la Cina, il suo rapporto con il concetto di trionfo. A trentasette anni Jackie Stewart era già in pensione da tre, Emerson Fittipaldi fuori per sempre dalla F.1 da tre pure lui e perfino Nelson Piquet, dopo la catastrofica esperienza alla Lotus, era intento all’ultimo agrodolce biennio in Benetton, caratterizzato da tre vittorie in tutto, ma mai dalla percezione diffusa d’esser restato quello di un tempo.

Il peso degli anni e delle delusioni

Si potrebbe andare avanti una giornata, ma la morale non cambia: trentasette anni nella F.1 moderna, e ancor più in quella contemporanea, sono un macigno. Età bastarda e maledetta, all’interno della quale, da un momento all’altro, puoi ritrovarti a perdere per strada fisiologicamente un secondo al giro senza possibilità di remissione. E gli esempi dei longevi Nigel Mansell e Fernando Alonso servono fino a un certo punto, poiché entrambi incarnano biografie eccezionali e tali da non confortare statistiche o ragionamenti più generali. Poche storie, Lewis Hamilton si muove col peso sulle spalle di un’età che costituisce un gravame, un impedimento sacrificale e anche il presupposto sensato della fine della festa o quasi. Ma questo è niente, perché a martoriargli il groppone ci sono almeno altri tre fattori. Il primo è la terrificante delusione di Abu Dhabi 2021, aggravata dalla certa consapevolezza d’aver subito una terribile ingiustizia. Dal punto di vista della motivazione tutto ciò potrebbe essere letto anche quale galvanizzante stimolo in più, invece no, visto che la rabbia da sola non fa farina e, al contrario, la delusione porta a continuare per impulso di rivalsa ma anche, tendenzialmente, a far perdere lucidità e serenità di gestione. Poi c’è un altro fattore a carico, e non ha niente a che vedere con Lewis in sé, ma con la Mercedes. Ed è dato dal fatto che la Mercedes W13 è stata, dall’inizio e per gran parte della stagione, una vera cessa. La peggior macchina mai guidata da Hammer e pure la più sfigata Mercedes in tutta la saga sfrecciante delle Frecce d’Argento, dagli Anni ’30 in poi. E sappiamo tutti che a 300 all’ora la macchina sbagliata è un’iniezione quasi puntualmente letale per le motivazioni di un quasi quarantenne.

Non finisce qui, perché tra gli elementi sfiancanti che Hammer ha dovuto (e deve) subire c’è un altro aspetto, addirittura peggiore e ancor più devastante di tutti quelli fin qui elencati, ossia la supercompetitività del compagno di squadra George Russell. Il quale, con Hamilton positivo al Covid 19, quasi aveva vinto oltre che dominato la sua unica gara da supplente in Bahrain, a fine 2020. E poi, promosso titolare quest’anno, fin dall’inizio si è messo a spingere come un ossesso, affiancando a prestazioni monstre in prova una solidità, una consistenza e una continuità in gara tali da farne un micidiale trapano e anche una sfiancante pietra di paragone. La verità: sommando tutti questi fattori, Lewis Hamilton da dieci mesi a questa parte si è ritrovato, senza volerlo e privo di colpa alcuna, in un terrificante meccanismo multifattoriale in grado di demolire morale e autostima di chiunque. Una sorta di schiacciasassi atto a mettere definitivamente knock out anche il campione più motivazionalmente e psichicamente ben attrezzato.

Hamilton oltre le difficoltà

Be’, forse chiunque, ma non Lewis Hamilton. Dopo sedici gare il confronto tra i due in qualifica, sul giro secco, è di otto a otto e da questo punto di vista Hammer sta facendo un vero miracolo, perché Russell appare uno fresh boy stellare, in pienissima ascesa e destinato a una luminosissima carriera. Però ciò ancora non gli basta per svettare. Poi, sì, in classifica il giovane ha trentacinque punti di vantaggio sul più esperto campionissimo, però è anche vero che il parapiglia con Alonso e Spa e i convulsi sviluppi finali del Gp d’Olanda hanno contribuito da soli a far pender l’ago della bilancia a favore di Russell. Perché, credeteci o no, a Zandvoort un Hamilton tetragono, irriducibile e in meraviglioso spolvero, a podio cinque volte consecutive nelle ultime otto gare, sembrava nettamente candidato a vincere. Fatto salvo il rimescolamento di carte nel finale, tra ritiri finti - vedi Tsunoda -, ghirigori in salsa Safety e un clamoroso montaggio di gomme sbagliate, che in confronto il muretto Ferrari è da Nobel per la pace. In altre e più sentite parole, se è vero che di recente a più riprese la Mercedes W13 è sembrata vettura in grado di ritrovare la retta via, a patto di trovarsi su circuiti e temperature che ne ottimizzano la finestra prestazionale, è ancor più vero che Lewis Hamilton sta disputando, inciampi e sfortune a parte, una seconda parte di di stagione non appariscente ma sostanzialmente sensazionale, visti gli sfiancanti fattori negativi a carico di cui sopra.

E così, se è vero che alcuni dei suoi sette titoli mondiali vinti son sembrati fin troppo agevolati dalla Mercedes di turno imbattibile, è altrettanto innegabile che la sconfitta 2021 è restata tutt’altro che limpida e che la incondizionata resistenza 2022 sta facendo di lui un chiaro eroe di quest’annata così difficile e complessa. Di più. Il suo continuare a combattere disperatamente per vincere almeno una gara - al fine di tenere il passo di almeno un successo a stagione in ogni anno trascorso in F.1 dal 2007, a testimonianza di un primato adamantino -, è una meravigliosa ode alla voglia di non arrendersi. E anche il suo recentissimo pronunciamento relativo a una precisa volontà di continuare a correre senza darsi limiti di tempo, suona come un inno alla resilienza e all’inseguimento del sogno mai rinnegato dell’ottavo titolo iridato. Si consuma così un interessante quanto epico paradosso: se l’Hamilton che divorava vittorie e record al volante di una Mercedes ipersuperiore convinceva mica tutti, da quando ha iniziato a perdere e a regire in modo così esistenzialmente entusiasmante, ha il mondo dalla sua.

E, piaccia o no, tutto sommato, è lui, a oggi, la grande rivelazione di questo per lui inatteso e stranissimo campionato.


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