Smettiamola di scandalizzarci per la lentezza delle monoposto delle nuove squadre del Mondiale di Formula 1. Bisognerebbe leggere la storia e capire che i lenti, gli ultimi designati, ci sono sempre stati, fi n dalla prima corsa nel 1950. Nell’anno di grazia 2010 fa specie trovare Lotus, Virgin e Hrt a... clessidre di distacco dai primi ma questo è accaduto anche ad altri che ora sono più avanti e navigano a centro gruppo. C’è lo scotto dell’inizio da pagare, ci sono i programmi improvvisati, c’è soprattutto una sottile ansia di andare contro la storia, di fi rmare un’impresa che oggi appare impossibile.
Non sappiamo se una delle tre potrà seguire le orme di Williams, per esempio, che dell’epoca degli assemblatori è l’ultimo autentico testimone e i cui inizi, una volta dismessa la privatissima Brabham di Piers Courage nel 1969, non furono eclatanti e si basarono soprattutto sulla delusione del progetto De Tomaso, sulle difficoltà dell’Iso Marlboro, sul fallimento del materiale ex-Hesketh acquistato in comproprietà con Walter Wolf. Per arrivare a vincere il primo Gran Premio, Williams impiegò dieci anni. Difficile che la storia si ripeta con nuova Lotus, Virgin e Hrt ma mai dire mai. La F.1 è un pianeta a se stante: fino a due anni fa c’era il cartello delle grandi Case a controllarlo.
Oggi quello ha resistito ma fino a un certo punto, confermando una tradizione costante nell’automobilismo di ogni categoria: laddove arrivano i colossi economici e tecnologici non cresce più l’erba del privato o del piccolo, si uccide il senso dell’improvvisazione, il coraggio della fantasia, il piacere di rischiare. Si stritolano, soffocandoli, i piccoli e poi, al primo alitare di vento contrario, al primo controllo di bilancio, si chiude baracca e burattini alzando bandiera bianca, perché gli uomini marketing e di amministrazione, i poeti dei numeri, spesso alla base dei disastrosi risultati di marchi importanti, si accorgono che correre costa e alla fine se non si vince non conviene. I grandi spesso non hanno cuore, non possiedono la passione.
È per questo che non ce la sentiamo di mettere in croce la lentezza dei nuovi arrivati nel Mondiale. Anzi, ci stanno più simpatici di tanti altri, l’importante è che abbiano idee e sentimento. Senza questo mix, Frank Williams non esisterebbe, le stesse Ferrari e McLaren non avrebbero superato i periodi neri, quando anche loro erano costrette alla prestazione anonima, alla sofferenza.
È ingiusto quindi rigirare il dito nelle ferite degli ultimi, nel loro lento procedere nelle traiettorie iridate. Quanto l’oggi sia più difficile di ieri è innegabile: la disparità di budget disegna abissi profondi centinaia di milioni di euro.
L’EPOCA DELLE KIT-CAR
Senza considerare che negli Anni’70 le kitcar, così si chiamavano le monoposto assemblate mettendo insieme componenti prese da più parti, erano a disposizione di molti. Bastava prendere la vettura alla moda dell’anno precedente, copiarla in tutto e per tutto, rivolgersi al mercato di chi trasformava l’alluminio in monoscocche, montare l’intramontabile, perfetto, magnifico V8 Cosworth Dfv e presentarsi al via di qualche corsa. Pensiamo per esempio ai Gran Premi del 1974, l’anno della resurrezione Ferrari nel Mondiale e della seconda affermazione di “Emo” Fittipaldi, transfuga Lotus e nuova prima guida McLaren.
Era un anno simile al 2010, nel quale la crisi economica dovuta al petrolio costrinse molti sponsor a scappare dalle corse. Fu una stagione piena di new-entry che si presentavano alla qualifiche e riempivano gli schieramenti. Alcune eranoimprovvisate, altre, pur nelle ristrettezze finanziarie, potevano godere di progettisti con titoli iridati alle spalle come Ron Tauranac, padre delle Brabham, futuro fondatore della Ralt, che fu la prima costruttrice in larga scala a infrangere lo strapotere di March e Chevron in Formula 3 prima dell’avvento delle Reynard e delle Dallara e che sviluppò il primo sei cilindri Honda in Formula 2. La sua kit-car si chiamava Trojan, un marchio noto agli appassionati inglesi perché protagonista delle corse dF.5000 dell’epoca. Era una monoposto onesta, dotata di frontale stile Brabham BT42, con i radiatori incorporati ai lati del musetto, che debuttò con Tim Schenken nel Gp di Spagna di quell’anno in modo non del tutto anonimo: ultima in prova ma nello stesso secondo di tanti altri, per l’esattezza sei, e quattordicesima a fine gara a otto tornate dal vincitore. In Belgio, andò meglio: Schenken era un ottimo pilota dal notevole pedigree in Formula 3 e Formula 2, un solido professionista di belle speranze come lo si definirebbe ora. In qualifica portò la Trojan in ventiquattresima posizione davanti ad altri sette e in corsa finì decimo a due giri, piazzamento che con i generosi punteggi odierni sarebbero equivalsi a un punto iridato. Poi ci fu Monaco, un incidente multiplo al via che coinvolse oltre a Schenken anche Schuppan, Beltoise, Hulme, Pace, Brambilla, Redman, Merzario.
La Trojan, senza mecenati alle spalle, si rivide solo due mesi dopo, a Silverstone, dove l’australiano finì la corsa al settimo giro, e poi in Germania, dove non si qualificò, a Zeltweg, dove tagliò il traguardo al decimo posto, e a Monza, dove un ritiro sancì la conclusione ufficiale di quell’avventura. Fu proprio dalla base della Trojan che a Tauranac venne l’idea di inventare la Ralt, marchio che avrebbe segnato un’epoca nell’automobilismo mondiale, quello preparatorio alla Formula1 stessa. Erano periodi difficili e ci si arrangiava: la Hesketh nacque in sordina e cosa riuscì a diventare è storia nota. Da una March qualsiasi la Hesketh ottenne una monoposto capace di vincere e di lanciare la stella di James Hunt nel firmamento.
MONOPOSTO A... GETTONE
Non fu così per la Token (gettone), debuttante come la Trojan, nel Mondiale del 1974. Una meteora intrisa di buone potenzialità. Fu un finanziere ad avere l’idea di lanciarsi nell’avventura. Senza grandi proclami, il businessman Tony Vlassopulo e il suo collega Ken Grob acquistarono un progetto libero, disegnato da Ray Jessop per conto della Bac Aviation. Token era l’acronimo dei due cognomi, la sigla della monoposto faceva R, ovvero Ray, 102. Con il senno di poi si potrebbe dire che la Token fu la prima monoposto della terza era McLaren, quella che seguì alla gestione del suo fondatore e successivamente di Teddy Mayer: venne infatti commissionata nel 1973 da Ron Dennis in persona quando iniziava la sua lenta ma progressiva scalata nel motorismo. Dennis era il patron della Rondel - acronimo del suo cognome e di quello del socio Nel Trundle - nell’Europeo di Formula 2 del 1973 e nel 1974 avrebbe voluto sbarcare nel mondiale con lo sponsor Motul a finanziare il tutto. Il piano naufragò: l’azienda petrolifera finì per appoggiare la Brm, guarda caso proprio nell’anno che segnò l’inizio della caduta della squadra inglese, e nel progetto della Rondel Formula 1 subentrarono i signori Vlassopulo e Grob. Il debutto della Token, in Belgio, fu convincente, anche grazie al fior fiore di pilota che la guidava: Tom Pryce. Rimase senza carburante ma in qualifica colse il ventesimo tempo dietro alla Hexagon Brabham di Watson e davanti a Edwards, von Opel, Schenken, Reutemann, Migault, Mass, Pilette, Larrousse, Hill, van Lennep e Brambilla. A questo punto intervennero i soldi. Vlassopulo e Grob si accorsero che correre costava. Si ingegnarono ad affittare la monoposto per rientrare dall’investimento.
A Silverstone, la Token venne gestita dal team Harper e David Purley non si qualificò per un soffio, tornando a coccolare il suo progetto Lec. Poi toccò ad una squadra gloriosa, la Chequered Flag, affidarsi ai servigi di Ian Ashley in Germania e in Austria. Sforzi che non andarono oltre un quattordicesimo posto al Ring e a un ritiro a Zeltweg. Così i finanzieri rampanti decisero di mollare tutto, Cavalli di Trojan Tim Schenken corse per Ferrari nei Prototipi e in F.1 con vari team, fra i quali la Brabham. Disputò 6 Gp con la Trojan senza mai brillare Ian Ashley, nickname “Crashley” per la sua attitudine agli incidenti, debuttò in F.1 con la Token al ‘Ring ‘74, finendo 14esimo perché nemmeno dando in gestione la vettura riuscivano a guadagnare e un’altra meteora di terzo livello ma con buone potenzialità sparì nel dimenticatoio, salvo riapparire con la sigla Safir nel 1975 nelle corse non di campionato a Silverstone e Brands Hatch. Trojan e Token nacquero e scomparirono nel breve volgere di pochi mesi. Furono semplici tentativi. Le basi di Lotus, Virgin e Hrt sono diverse: entrare nel Mondiale per loro significa volerci restare.Per Virgin la Formula 1 è un’operazione molto commerciale, con il co-marketing tra Richard Branson e i suoi abituali partners che dovrebbe consentire una partecipazione con pochi investimenti e sicura in fatto di guadagni.
La Lotus parte quasi dalle stesse basi, il marchio “pesa”, è storia della Formula 1, anche se della Lotus “autentica” c’è solo il colore. La Hrt, invece, è più assimilabile a quei tentativi Anni’70; è frutto del sogno di Adrian Campos già infrantosi su sponsor defilatisi prima ancora di iniziare l’avventura, e nuovi proprietari dei quali non si conosce la reale consistenza economica, nonostante il progetto della Dallara - non evoluto per mancanza di incasso - sia probabilmente il più valido dei tre debuttanti iridati 2010. Se la Hrt ricorda comunque il motorismo degli Anni ‘70, la Virgin sembra assimilabile a un team che nacque nel 1989, la Onyx. In realtà la sigla era conosciuta da tutti: rappresentava l’eccellenza delle formule minori, Formula 2 e Formula 3000 soprattutto. Mike Earle rappresentava la dependance del team ufficiale March in Formula 3000: con Stefano Modena aveva vinto il titolo nel 1987 e programmò a metà ‘88 il suo ingresso come costruttore nel Mondiale. Si affidò a un ottimo tecnico, Alan Jenkins, ex-McLaren e Penske negli Usa, e a un gruppo finanziario, la Moneytron di proprietà di un eccentrico belga, Jean Pierre Van Rossem.
Il business del manager sembrava infallibile: si trattava di un sistema “anticapitalistico” capace di anticipare le oscillazioni di borsa. Van Rossem era un tipo eccentrico che di fronte a Re Baldovino del Belgio ebbe a inneggiare alla Repubblica e che sbarcò nel Mondiale in pompa magna come la vettura disegnata da Jenkins, interessante nell’aerodinamica e nel sistema di sospensioni anteriori, con le molle sistemate appena al di sopra delle gambe del pilota. Con il motore Cosworth Dfr accoppiato a un sistema di trasmissione X-Trac ebbe una prima parte di stagione disastrosa. Johansson e Gachot erano spesso fuori dalle griglie. La vettura era troppo raffinata per essere gestita da una piccola squadra. La situazione migliorò da metà stagione in avanti: a Le Castellet arrivarono i primi due punti con Johansson e alla fine della serie il bottino fu un decoroso undicesimo posto con sei punti, frutto del terzo posto conquistato dallo svedese in un rocambolesco Gran Premio del Portogallo.
C’erano insomma tutte le basi per un 1990 ancora migliore. Invece no: Jean Pierre Van Rossem cedette tutto all’improvviso e poco dopo l’inizio del Mondiale si venne a sapere che era stato indagato per frode, a cui seguì una condanna a cinque anni di detenzione. I tentativi disperati del team di procacciarsi un partner economico portarono la Onyx a legarsi a Peter Monteverdi, il costruttore di auto Gran Turismo svizzero ex-pilota egli stesso. Dopo il Gp del Brasile vennero messi alla porta Johansson, sostituito da Gregor Foitek, ex-EuroBrun e figlio di un grande amico di Monteverdi; Alan Jenkins; l’ingegnere di pista Steve Foster. E Monteverdi in persona prese in mano le redini della squadra. Ma fu un flop sia tecnico che finanziario: la squadra non aveva nemmeno i soldi per pagare i ricambi e dopo il Gran Premio d’Ungheria concluse la propria avventura nel circo iridato.