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Hamilton: Ecco Lewis come non lo avete mai sentito

Hamilton: Ecco Lewis come non lo avete mai sentito

7 lug 2010

Il nuovo leader del mondiale ha un fisico così esile che, quando si appoggia allo schienale della sedia, sembra che qualcuno ci abbia steso una maglietta. Ma le mani sono grandi, solide, la stretta forte e decisa. Lewis Hamilton non ama il suo berretto. «L’anno prossimo ne voglio uno tutto nuovo, questo va nel cestino». Nuovo, magari a iniziare da quel numero 2, che ultimamente gli va sempre più stretto. Si parte, e si parla di tutto. Scoprendo anche cose di cui normalmente un pilota non parla.

- Sembra che la McLaren abbia preso “l’abitudine” di partire un po’ in sordina e crescere durante la stagione. È perché a inizio anno avete ancora bisogno di conoscere la vettura o per altri motivi?
«Ogni anno l’obiettivo è avere la macchina migliore già dalla prima gara. Ma poi, in genere, succede di arrivarci e scoprire che qualcun altro ha lavorato meglio. A volte c’è chi prende più rischi in certi settori, va più al limite nel progetto, in termini di affidabilità e cose del genere. Il mio... il nostro team non lo fa mai. Va sempre sul sicuro. Però se guardi al 2007 e 2008, eravamo veloci fino dall’inizio. L’anno scorso? Quello non conta, la macchina era disastrosa. Ma quando sei indietro e devi recuperare, si è visto che in questo noi siamo i migliori. Quanto a me, di solito se sei già davanti ti sforzi meno. Ma il mio approccio è diverso: io “spingo” sempre nello stesso modo. BIsognerebbe sempre andare al 100 per cento, non lasciare niente indietro. È per questo che faccio sempre pressione sui ragazzi».
- E quest’anno era iniziato come te lo aspettavi?
«No di certo! Io, veramente, non inizio mai una stagione con delle aspettative. Sapevo che avevamo una buona vettura, sapevo che la Red Bull sarebbe stata valida. Quello che non sapevo che avremmo avuto tanti alti e bassi nelle prime due gare. Poi le cose si sono mosse per il meglio. Ma non sai mai quello che può succedere, penso che sarà sempre una stagione in altalena».
- Ordini di squadra: che cosa ne pensi?
«In questo sport non ci sono ordini di squadra. Si lavora insieme, ma alcuni piloti lo fanno meglio di altri. Alla fine dei conti, però, vogliamo tutti vincere. Fra di noi c’è un grande equilibrio. Devi rispettare te stesso, la tua macchina e quella che hai vicino. Se non lo fai, sbatti. Quando correvo in squadra con Fernando, che gli piacessi o no, lui rispettava il fatto che fossi veloce. E io facevo altrettanto. Quando eravamo in lotta l’uno con l’altro, non ci siamo mai facilitati la vita a vicenda; ma con manovre sensate, senza quell’aggressività che causa problemi. Credo dipenda dall’esperienza... anche se io allora non ne avevo».

- Veramente tu e Fernando un po’ di scintille le avete fatte, da compagni di squadra. Vedi Spa 2007...
«Ah, già (ride). In quel periodo lui era parecchio aggressivo. Per fortuna io sono veloce a rispondere ».
- Questo “margine” che dovete concedervi a vicenda, è qualcosa di fisso o varia a seconda del pilota con cui stai lottando?
«Cambia nel corso della stagione. All’inizio sei tutto rilassato, anche con il compagno di squadra. Col passare del tempo arriva la pressione: dalla squadra, dal mondo esterno, da te stesso. Cerchi di tenerla battuta, questa pressione, ma non è sempre facile, specie se il il tuo compagno va più forte. Così reagisci, a volte dici o fai cose sbagliate. Con più esperienza non lo faresti. Per esempio l’Australia (si riferisce all’anno scorso, quando fu squalificato per avere mentito ai commissari) . Se tornassi indietro, mi comporterei molto meglio ».
- Come mai si parla sempre tanto di “errori di comunicazione” durante la gara? Vogliamo dare la colpa alla radio che non funziona?
« Macché, la radio va sempre. È che ci sono i capi - e fa segno con la mano in alto - e poi si arriva giù fino a noi. Loro comunicano le cose, noi dobbiamo fidarci di loro. Questo è il vero problema. Per esempio, quando in squadra c’era Ron ( Dennis, naturalmente, ndr), se io ero in testa alla gara iniziava a dire: “ risparmia i freni”. Questo perché diventava nervoso. Io non avevo nessun bisogno di risparmiare i freni, lui lo diceva per farmi andare più piano. il suo era solo nervosismo. Ma era stupendo quel feeling fra noi due. I problemi di comunicazione li hai sempre, anche nelle relazioni con le donne. Il fatto è che in una organizzazione gigantesca come la nostra tutto deve essere impeccabile ».
- L’esperienza aiuta a superare la pressione psicologica?
« La controlli meglio. Per esempio Jenson ha meno difficoltà di altri. E anche Fernando, quando vinse il secondo mondiale, avrà avuto meno difficoltà dell’anno prima. La pressione è come sentirti il peso del mondo sulle spalle. È una sensazione stupefacente, ma anche difficile da equilibrare. Ti sogni le corse, pensi sempre agli incidenti, a tutto quello che può succedere. Tutto ti passa per la testa e ti prepari anche al peggio ».
- Cambiamo argomento. La Ferrari ha messo sotto contratto un ragazzino di undici anni. A te è successo qualcosa del genere con Ron Dennis. C’è un limite oltre il quale non si deve andare?
« Ron lo incontrai che avevo dieci anni. Mi disse: telefonami di nuovo quando ne avrai diciannove. Ma poi fu lui a contattarmi quando avevo 13 anni. Ci deve essere un limite, mica possiamo mettere in pista i bambini di tre anni. Ma già a otto, corrono e mostrano il loro potenziale. A dieci anni, quando ho incontrato Ron, ero alla mia seconda stagione e già campione britannico di kart. Bisogna dare delle opportunità. Io non conosco la situazione di questo ragazzo, ma quanto a me, fui molto fortuanto a essere quel giorno agli Autosport Awards. Perché ragazzi, in casa non avevamo una lira. Non so proprio come siamo riusciti a tirare avanti correndo per altri due anni. Dipende solo da come fai le cose, devi darti una misura. Un bambino ha bisogno di crescere. Guardate Michael Jackson... ».
- Michael Jackson?
« Sì, quando era piccolo era già sotto pressione. Non ha mai avuto una vita sua, mai imparato le regole per essere un uomo. Anche a me, di certo, è mancato qualcosa da bambino. Non per colpa di Ron, perché lui era molto protettivo, si assicurava sempre che io non saltassi la scuola. L’unica pressione che mi ha trasmesso allora era quella dello studio. Ma quando da ragazzino corri in kart sei già impegnatissimo, se vai alle gare perdi due giorni di scuola, ti manca il cinema, le feste con gli amici, ti manca una parte della tua vita. In più a undici anni il tuo corpo non è pronto per le sessioni di palestra. Devi prenderti il tuo tempo. Giorni fa o incontrato uno che ha un figlio di nove anni. Mi fa: vogliamo arrivare in F. 1. Gli ho risposto: datti tempo. Prima che tu te ne accorga diventa un lavoro, un business che può rovinare le tue relazioni. I primi sei anni di karting, con mio papà, sono stati fantastici. Ma poi si entra nel business ed è durissima ».

- Hai avuto una voce in capitolo nell’arrrivo di Button?
« Non voglio avere un’opinione, ho solo ascoltato quello che mi dicevamo. Quando Martin Whitmarsh mi ha chiesto che cosa pensavo di Jenson ho risposto che era molto forte, ma la decisione spetta al team. Con Jenson mi trovo bene. Ci piace allenarci, ci piacciono le donne... Anche lui è interessato all’altro sesso, il che è una bona cosa... Ci piace lo stesso tipo di musica. Quando ero in squadra con Heikki, lui ascoltava rock durissimo. Dovevo mettermi le cuffie per sentire il mio Bob Marley. Mi diceva: senti ‘ sto pezzo, è una nuova band finlandese. Tremendo. Con Jenson amiamo gli stessi pezzi, non ha mai bussato dal mio lato del motorhome per dirmi “ cambia ‘ sta m... di musica” ».
- Ma la chitarra la suoni ancora?
« L’ho suonata per anni, ma ultimamente ho lasciato perdere».
- Lewis, qual è stata la vostra reazione quando vi hanno parlato per la prima del sistema F-Duct? Vi siete spaventati all’idea di tappare un buco con la gamba?
« Per niente. È un sistema intelligente, abbiamo visto subito che aveva un potenziale enorme. A noi interessa tutto quello che può migliorare il tempo sul giro. Quando me ne hanno parlato ho detto: forte, quando possiamo averlo? All’inizio è molto difficile, poi diventa “ cool”, fantastico. E neppure faticoso... per noi ».
- Continui a non avere un manager, dopo la “separazione” da tuo padre Anthony. Stai già prendendo altri contatti?
« Se coinvolgerò qualcuno, sarà solo per l’anno prossimo. Al momento non ho fretta. Non penso di avere un bisogno disperato di un manager, perché ho un contratto per i prossimi tre anni. Il fatto è che io no posso pensare alle tasse, alla casa, alle mail che arrivano. Mi serve una persona che se ne occupi. Un buon segretario, una persona che segua le pubbliche relazioni. Non voglio legarmi a qualcuno a casaccio e poi pentirmene. Ho bisogno di capire cosa voglio veramente ».
- Ma delle offerte ne hai avute parecchie, no?
« Non ne ho idea, ma penso che fossero davvero tanti. Anche dei padri di famiglia, anche donne con figli che scrivevano dicendo: penso di poter essere un buon manager per Lewis. Gente venuta dal nulla che si proponeva... ».

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