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Incontro di BOXER

Incontro di BOXER

7 lug 2010

Quella mattina del 1969 alla periferia di Modena non c’era il solito caldo umido ma l’aria frizzante che anticipava la fi - ne dell’estate. Il rombo di un 12 cilindri lacerava l’aria attorno al vecchio aerautodromo. Non c’erano i severi limiti di rumorosità di oggi, non era ancora iniziata la caccia ai decibel criminali a quell’epoca e perciò sentir rombare un 12 cilindri Ferrari da corsa, anche a poche centinaia di metri dalle case, era motivo di piacere e di emozione, non di fastidio. La pista di Fiorano, in quei giorni di fi ne estate 1969, era ancora di là da venire. Sarebbe stata costruita soltanto tre anni più tardi. Perciò a quei tempi, quando c’erano un collaudo o un test da svolgere, la Ferrari si spostava da Maranello al vecchio circuito di Modena che era ricavato nel parco compreso fra la via Emilia Ovest e strada San Faustino, appena fuori dal centro città. Quella mattina però il suono del 12 cilindri Ferrari che tirava le marce su e giù per i rettifi li dell’autodromo, alle orecchie più allenate sembrava diverso dal solito. Un rombo più metallico. Più pieno e vigoroso. Davanti ai box Mauro Forghieri aspettava trepidante l’esito di quel test. Dopo una lunga tornata di giri la monoposto rientrò lentamente. Chris Amon si sfi - lò i guanti con la sua consueta fl emma, sollevò gli occhialoni dal casco jet e disse:
«È davvero un ottimo motore, Mauro, però...». «Però che cosa?» lo incalzò Forghieri. «Però ho già firmato per la March. A fine stagione lascio la Scuderia. Non guiderò questa Ferrari nel 1970».

L'occasione persa di Amon

Amon, 26enne neozelandese che da tre anni era prima guida della Ferrari, non sapeva che in quel momento aveva appena commesso lo sbaglio più grande della propria carriera. D’altronde è passato alla storia per la sfortuna cronica unita alla capacità - più unica che rara - di riuscire a scegliere ogni volta il team giusto nel momento strategicamente più sbagliato. Quel giorno Amon, stufo di una Ferrari che negli ultimi anni era sempre meno competitiva, non si convinse a cambiare idea. Per cui non guidò mai in F.1 quel motore che aveva appena collaudato per primo, fresco fresco di rodaggio. Lui non vinse mai un Gran Premio mentre quel motore che aveva appena guidato (e rifiutato) trionfò 37 volte negli anni successivi. Quel motore era il primo esemplare del 12 cilindri boxer di tre litri, il propulsore più longevo e simbolico della storia della Ferrari.

Undici anni di vittorie

Il boxer visse per undici lunghi anni in F.1: più di qualsiasi altro motore Ferrari. E in quegli undici anni motorizzò almeno una decina di Ferrari: dalla prima 312 B F.1 del 1970 alla sfortunata T5 del 1980. Comprese le 312 PB Prototipo del ‘71 e ‘72. Disputò 155 Gran Premi, permettendo alla Ferrari e ai suoi piloti di conquistare 41 pole position, 37 vittorie e 3 titoli mondiali Piloti (2 Lauda, 1 Scheckter) e altrettanti Costruttori. A cui va aggiunto il titolo mondiale per marche vinto tra i Prototipi nel 1972 con la 312 PB che era spinta sempre dal medesimo propulsore, anche se meno “spremuto” per affrontare le gare di 1000 km. Almeno dieci piloti di F.1 - da Ickx ad Andretti, da Scheckter a Gilles Villeneuve - guidarono in F.1 quel favoloso propulsore. Ma nessuno ne fu un interprete di successo come Niki Lauda che conquistò 15 delle 37 vittorie assolute del 12 cilindri boxer e due titoli iridati. Neppure il 10 cilindri a V di fine anni ‘90 (quello che gareggiò in F.1 fra il 1996 e il 2005 prima del cambio di regolamenti) fu così longevo: il boxer Ferrari durò undici anni contro i dieci del V10, anche se quest’ultimo vinse più gare perché incrociò l’epoca Schumacher.

Quarantanni dopo

In questi giorni cadono i 40 anni dal debutto di quel motore così longevo e carico di successi. Un propulsore che rappresentò una svolta clamorosa per la Ferrari e che permise al Cavallino negli Anni ‘70 di riscattarsi dagli anni bui della fine del decennio precedente e riconquistare quel ruolo di superiorità tecnologica in F.1 che le era stato sottratto dagli inglesi. Vale la pena scoprire come era nato, quali erano i suoi segreti. E perché rappresenta una pietra miliare nelle corse.
Pochi sanno, per esempio, che quel motore nacque con quella configurazione così originale perché doveva essere montato su... un aereo. E fu il risultato di un aut aut di Forghieri ad Enzo Ferrari.
«Verso la fine degli Anni ‘60 - racconta oggi Forghieri - mi ero reso conto che ci stavamo dividendo su troppi fronti. F.1 e Prototipi a una settimana di distanza con gli stessi uomini, gli stessi meccanici e gli stessi piloti. Si tornava da Le Mans stanchi morti e bisognava ripartire per il Gp di F.1 successivo. In quel modo non si sarebbe potuto tornare a vincere in F.1. Ma soprattutto mi ero reso conto che i nostri 12 cilindri ormai avevano tecnologie non più al passo dei tempi. Così proposi a Ferrari di staccarmi dalla squadra corse: volevo concentrarmi a sviluppare tecnologie per il futuro». In quell’epoca - parliamo del 1969 - venne sottoscritto l’accordo fra Fiat e Ferrari con cui il gruppo torinese entrava nella proprietà del Cavallino. Alla Ferrari cominciarono ad affluire finanziamenti per le corse che fino a quel momento erano sempre scarseggiati. E la riscossa tecnica, grazie al genio di Forghieri e al know how del suo eccezionale staff di disegnatori e progettisti, fu molto rapida. Forghieri era un vulcano che voleva esplorare nuove strade e aveva un’intuizione innata che gli permetteva di risolvere problemi tecnici apparentemente insormontabili con piccoli colpi di genio tipici di una creatività tipicamente italiana. A quel tempo, per esempio, Forghieri non si capaciva di come il motore utilizzato dalla Ferrari in F.1 - un V12 con le bancate a 60 gradi - non riuscisse ad esprimere il potenziale teorico superiore di cui disponeva. Anche se al banco girava oltre 11.000 giri/minuto e sviluppava più di 430 cavalli, il V12 Ferrari di quegli anni - montato sulle 312 di Amon e Ickx fra il ‘68 e il ‘69, non garantiva le prestazioni dell’8 cilindri Ford Cosworth Dfv che ruotava ad appena a 9500 giri/min ma erogava quasi la stessa potenza. Serviva un progetto completamente nuovo.

L'occasione aereonautica

Forghieri decise di sperimentare la strada del propulsore boxer. Un motore piatto, con le bancate a V di 180 gradi, quindi con i cilindri contrapposti. Era uno schema tecnico che aveva sempre affascinato i progettisti perché consentiva di abbassare il baricentro, ma comportava non pochi problemi. Soprattutto di lubrificazione. La Porsche però l’aveva adottato per i suoi 6 cilindri raffreddati ad aria e anche per la 917 4.5 litri del 1969. E aveva dimostrato che l’idea del boxer poteva essere vincente. Forghieri sposò in pieno lo schema del motore “piatto”. Venne costruito un 12 cilindri boxer in versione 2 litri che, montato su una vettura Sport (una Dino 212), dominò la stagione dell’Europeo Montagna 1969. Sulla base di quell’esperienza ne fu costruito un esemplare da 3 litri per la F.1. Una spinta decisiva a quel progetto venne da un fatto imprevisto. In quei giorni la Ferrari ricevette la visita di un certo Franklin, un americano costruttore di aerei. «Questo signore - ricorda oggi Forghieri - ci chiese se avevamo un genere di motore da vendere che potesse essere impiegato sui loro aerei. Pensai subito che il 12 cilindri “piatto” che avevo in mente sarebbe stato ideale da alloggiare nelle ali di un aereo. Tanto che modificai il progetto in corso d’opera e il primo 12 cilindri piatto lo disegnai con lo spinterogeno e la pompa d’iniezione orizzontali per adattarlo a queste necessità». Era fatta. C’era l’idea, e c’era anche una prospettiva commerciale. Così, il progetto del 12 cilindri boxer per la F.1 da impiegare nel 1970 decollò velocemente. Anche se poi quell’accordo aeronautico non andò mai in porto.

Baricentro abbassato

Secondo Forghieri il boxer avrebbe dato vantaggi incredibili oltre che per abbassare il baricentro,anche per motivi aerodinamici. A quell’epoca i progettisti stavano scoprendo l’importanza dell’aerodinamica e un motore piatto consentiva di costruire una vettura più bassa dietro e lasciar fluire libera l’aria verso l’alettone, a tutto vantaggio di una maggior deportanza. Ironia della sorte, fu la caratteristica del boxer - l’essere largo e piatto - che ne decretò la morte undici anni dopo.

Il problema del surging

Rimaneva da superare un problema tecnico: perché i 12 cilindri Ferrari, pur girando a regime più elevato, non permettevano di erogare una potenza nettamente superiore al Cosworth V8? Era come se qualcosa li “bloccasse”. Forghieri si intestardì per cercare una soluzione al problema.
«Il nostro vecchio V12 al banco - ricorda Forghieri - arrivava a 11.500 giri. Poi, di colpo, il rendimento e la potenza calavano mentre i dati ci dicevano che non doveva succedere». Finché Forghieri ebbe un’intuizione: e se si fosse trattato del fenomeno noto ai motoristi come “surging”? Il termine inglese indica un fenomeno in base al quale l’olio di lubrificazione, invece di schizzare via dall’albero a gomiti durante il funzionamento, si “incolla” al manovellismo, creando maggior attrito e ostacolando la rotazione delle parti in movimento. Ma a quell’epoca - si parla del 1969 - non c’erano sonde né sistemi spettrografici per osservare al computer cosa succedeva “dentro” al motore durante il funzionamento. Finché Forghieri non ebbe un’idea. Pazza ma geniale. «Decidemmo di indossare maschere ed impermeabili di plastica e buttarci sotto a un motore funzionante al banco semiaperto, per vedere che succedeva lì dentro! Giusto pochi secondi, per guardare e scappar via prima che potesse scoppiare funzionando in quel modo...». Una follìa, perché l’olio o le schegge di metallo avrebbero potuto ferirli. Ma la curiosità era troppa.
«Mettemmo un vecchio motore V12 sul banco prova e facemmo smontare la parte inferiore del basamento. Poi lo facemmo funzionare al massimo e ci mettemmo lì sotto a dare un’occhiata. Era vero: si generava il surging. Scoprimmo che l’olio invece di esser sparato via o di cader giù per gravità, restava attaccato all’albero motore. Capimmo che la colpa era di contropressioni negative che si generavano e facevano cadere il rendimento meccanico del motore. Avevamo scoperto qual era il nostro punto debole rispetto al Cosworth».Dopo quella pazza analisi a motore aperto, Forghieri e i suoi disegnatori si misero al tavolo da disegno e cominciarono a riprogettare il 12 cilindri boxer.
«Costruimmo un propulsore all’avanguardia, dove le perdite per attrito interno erano ridotte al minimo. Per ovviare al surging realizzammo ogni pezzettino interno di motore con una superficie a depressione, per non trattenere l’olio. L’albero a gomiti era sagomato in modo che sputasse olio». Venne fuori un 12 cilindri avanzatissimo dal punto di vista tecnologico. Con albero motore su quattro supporti di banco invece dei tradizionali sette, per ridurre gli attriti. «Tutti gli assi a camme erano montati su gabbiette a rulli particolari: di tipo spaccato. Quando Enzo Ferrari venne a vedere questa soluzione, mi disse: ‘ei mat? Sei matto a farlo così? Ma la strada era quella giusta»

Si dice Boxer si scrive "piatto"

Il problema del surging, tallone d’Achille dei vecchi V12 Ferrari, era superato. Il nuovo 12 a cilindri orizzontali nei primi test ruotava a 11.600 giri e a quel regime erogava già 470 cavalli: una quarantina più del vecchio V12 e del Cosoworth V8. Dopo un paio d’anni aveva superato ampiamente i 500 cavalli. La supremazia tecnica era ritornata in Italia. Era quel neonato motore che Chris Amon provò a fine estate 1969, montato su un telaio ibrido. E che giudicò ottimo, ma che non portò mai in corsa perché - come detto - aveva già firmato per un’altra squadra.
Il boxer Ferrari crebbe rapidamente ma qui c’è da fare un distinguo: «Non chiamatelo boxer», tuona Forghieri ancor oggi. «Tecnicamente è più giusto dire che è un 12 cilindri “piatto”. O se volete, un 12 cilindri con le bancate a V di 180 gradi. La differenza è che le bielle di ogni bancata sono sullo stesso perno, quindi i pistoni girano nella medesima direzione, mentre nei boxer propriamente detti, come il Porsche per esempio, ruotano uno contro l’altro».
Il boxer nel 1970 mise le ali alla nuova Ferrari 312 B che aveva disegnato Forghieri e fece fare un salto clamoroso in avanti alle Rosse che l’anno prima arrancavano. Impiegò quattro gare per andare a punti , con il debuttante Ignazio Giunti al Gp del Belgio a Spa (4°). Alla quinta gara Ickx, pilota di punta Ferrari, era in prima fila e sempre con lui arrivò il primo podio. Finalmente, il 18 giugno 1970, giunse la prima vittoria: anzi, una doppietta nel velocissimo tracciato di Zeltweg, con Ickx primo e Regazzoni secondo. Poi l’apoteosi di Regazzoni a Monza e altre due vittorie di Ickx, in Canada e Messico. Quattro successi nell’anno del debutto, niente male! Ma fu nel 1974, con Lauda e la B3 prima e la 312 T dopo che il motore Ferrari 12 cilindri boxer (o “piatto”) divenne imbattibile. E conquistò il primo dei suoi tre titoli mondiali.
«La prima volta che provai la Ferrari 312 - ricorda Lauda - restai estasiato dal motore: era incredibile. Quell’anno guidavo la BRM 12 cilindri, ma il Ferrari era completamente un’altra cosa. Più coppia, più giri, molti più cavalli. E aveva un rumore fantastico. Un suono pieno e incredibile. Che trasmetteva potenza».
Chi ha seguito dal vivo i Gp degli Anni ‘70 sa bene di cosa parla Lauda: e sicuramente ricorda ancora il suono lacerante del 12 cilindri boxer Ferrari che si sentiva arrivare da lontano e si distingueva nettamente in mezzo alla muta dei V8 Cosworth molto più cupi.
Tre vittorie nel ‘74, sei nel ‘75, altrettante nel ‘76 e quattro nel ‘77. E poi quindici nel triennio successivo. Il boxer Ferrari raggiunse la maturità già a metà anni ‘70 quando girava al regime standard di 12.500 giri/minuto, toccando i 525/530 cavalli, garantendone sempre e sistematicamente almeno una trentina di vantaggio sui Ford Cosworth. Un bell’aiuto per i piloti Ferrari...
«Teoricamente - dice ancora Forghieri - avremmo potuto girare molto più su: anche a 13.500 giri. Il motore era progettato per alte rotazioni, ma l’accensione - Marelli Dinoplex - e l’iniezione meccanica - Lucas - dell’epoca non riuscivano a sostenere un regime così elevato».

L'uccise l'effetto suolo

La storia del boxer Ferrari arrivò a compimento alla fine del 1980, quando apparve chiaro che quello schema costruttivo - propulsore basso e largo - che era stato un punto di forza a livello meccanico, era però diventato un ostacolo a livello aerodinamico. Il diffondersi dell’effetto suolo e delle vetture-ala a fine Anni ‘70 rendeva vantaggioso un motore a V stretto, per avere un maggior passaggio d’aria nelle pance adibite a tunnel con ala rovesciata dove si generava il famoso effetto Venturi che schiacciava a terra le monoposto. Ma la Ferrari non fece mai la scelta di ripudiare il boxer per costruire un V stretto più adatto alle wing-car. Perché a Maranello si stava già pensando a una nuovo tipo di motore per gli Anni ‘80: il turbo. Ma quella è un’altra storia...

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